lunedì, Settembre 22, 2025
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Dal massacro del 7 ottobre a oggi: com’è cambiato il Medio Oriente

AGI – Negli ultimi due anni il Medio Oriente ha subito cambiamenti profondi: dal massacro del 7 ottobre in Israele e la guerra scatenata contro Hamas a Gaza, all’aperto conflitto dello Stato ebraico contro l’Iran, fino alla repentina caduta del regime siriano degli Assad dopo oltre 50 anni, così come l’elezione di un nuovo presidente, Joseph Aoun, e un nuovo premier, Nawaf Salam, in Libano dopo una lunga impasse politica. Mutamenti frutto di una reazione a catena di eventi che sono stati accompagnati da dolore e violenze, costati la vita a decine di migliaia di persone, ma che per alcuni hanno avuto anche ripercussioni ‘positive’.

È lo scenario tratteggiato da Beirut dalla giornalista libanese Caroline Hayek, firma del quotidiano L’Orient-Le Jour, attesa al Festival di Internazionale a Ferrara. Qui, il 5 ottobre alle 16, racconterà la rinascita della Siria dopo la caduta del regime degli Assad e affronterà il tema della censura che per decenni ha caratterizzato il Paese. Insieme a lei, nell’incontro dal titolo ‘La fine del silenzio’, ci saranno Catherine Cornet di Internazionale, Lorenzo Trombetta, giornalista di Ansa, e Jihad Yazigi, giornalista e fondatore del The Syrian Report.

“Quello che la regione ha vissuto in un tempo molto breve, in due anni, è qualcosa di terribile e allo stesso tempo incredibile, perché molti pensavano che l’influenza dell’Iran nella regione fosse eterna. O comunque eravamo ben lontani dall’immaginare che il regime di Bashar al-Assad potesse cadere così”, racconta all’AGI. È difficile “immaginare che un evento così drammatico, quel 7 ottobre che ha causato così tanti danni e che continua a farlo oggi, abbia portato ‘cose positive’, tra virgolette” – continua la reporter – ma tra queste c’è “il fatto che Hezbollah sia stato indebolito in Libano”.

“Ovviamente deploriamo tutte le vite umane perse, ma allo stesso tempo ora (il movimento sciita) ha molto meno controllo sullo Stato libanese. Era davvero più di uno Stato nello Stato, era diventato uno Stato al di sopra dello Stato”. Quanto alla Siria, sottolinea Hayek, “senza il 7 ottobre, il regime probabilmente non sarebbe caduto. In ogni caso, è stata una reazione a catena che ha portato a un completo stravolgimento della regione, il che è comunque positivo, almeno dal punto di vista di alcune popolazioni”.

Le sfide, a cominciare per il Libano, sono tuttora in corso: dopo mesi di fuoco a bassa intensità, lo scorso settembre il Paese dei Cedri è stato scosso dall’attentato ai cercapersone in dotazione ai militanti di Hezbollah, a cui è seguita l’uccisione dello storico leader Hassan Nasrallah e due mesi di guerra sferrata da Israele, conclusasi con un cessate a fuoco siglato lo scorso novembre. Nell’intesa, insieme al ritiro dell’Idf dal sud del Libano – avvenuto parzialmente, con ancora cinque postazioni occupate dai soldati di Tsahal oltre la Blue Line – è previsto il disarmo del movimento sciita filo-iraniano.

Proprio su questo, Usa e Israele hanno intensificato di recente le pressioni e il governo di Salam, in carica da meno di un anno, ha di recente accolto un piano dell’esercito per attuarlo. Scontata l’opposizione di Hezbollah, che ha rivendicato la sua centralità per la stabilità del Paese.

“Penso che l’esecutivo stia facendo tutto il possibile per garantire che questo disarmo venga attuato nel modo più diplomatico possibile – afferma Hayek – i segnali sono molto positivi, stanno lavorando in questa direzione”. “Ovviamente vediamo la risposta dall’altra parte”, aggiunge, ricordando le minacce del leader del movimento Naim Qassem a “mandare i suoi sostenitori in piazza se venisse portato avanti il piano di disarmo”.

Consegnare le armi sarebbe un colpo durissimo per il gruppo sciita filo-Teheran, verrebbe meno il suo motivo fondante e il ruolo ricoperto nel Paese. Il governo, “stretto tra l’incudine e il martello, sotto la pressione degli americani”, “non ha scelta” se non “farlo con sufficiente intelligenza, promettendo ad Hezbollah che non sarà completamente cancellato dal panorama politico libanese, ma potrà riconquistare il suo posto all’interno”. Per farlo, “deve conformarsi e deporre le armi come tutti gli altri partiti politici dopo la guerra civile tra il 1975 e il 1990”.

Diversa la situazione per la Siria. Dopo oltre 50 anni di regime, compresi tredici anni di guerra civile, Bashar al-Assad a dicembre 2024 è precipitosamente scappato, lasciando il potere in mano agli islamisti di Ahmad al-Sharaa. Quest’ultimo, che fino a meno di un anno fa aveva una taglia sulla testa per terrorismo, oggi è a New York per l‘Assemblea Generale dell’Onu e viene accolto dai leader occidentali.

Sul tavolo di Damasco ci sono diverse questioni, a cominciare dai rapporti con Israele che al sud si è allargato, occupando una zona cuscinetto, e con il quale sta negoziando un accordo di sicurezza. Ma tra i nodi da sciogliere ci sono anche la Turchia e i curdi, i rapporti con la minoranza drusa e con quella alawita legata agli Assad. “Ha un intero Paese da costruire, e il lavoro e’ cosi’ immenso che non puo’ permettersi di crearsi nemici ai confini”, sottolinea la reporter libanese, che da un decennio ‘copre’ gli avvenimenti nell’ingombrante vicino.

Il nuovo leader siriano “ha già molti problemi, li ha avuti sulla costa con gli alawiti e abbiamo visto i massacri che hanno avuto luogo. C’è il problema dei curdi nel nord, con il rischio di un intervento militare della Turchia se non si trova una soluzione. A sud ci sono i drusi, e anche lì ci sono stati massacri, con gli israeliani che non smettono di bombardare i depositi di armi e anche le forze siriane per segnalare il loro sostegno” alla minoranza. “Al Sharaa è con le spalle al muro, deve risolvere questa questione” dei rapporti con Israele. Il terreno sembra fertile.

Molti siriani, “tutto ciò che vogliono è che il Paese si rimetta in piedi e venga ricostruito. Non vogliono più avere nemici nella regione e se significa fare la pace con Israele ora, perché no. Questo è il discorso che si sente sempre più spesso nel Paese”, sottolinea la giornalista. E se oltreconfine “le cose si muovono molto velocemente”, in Libano i rapporti futuri con lo Stato ebraico sono “ancora un argomento tabù”.

Per Hayek, è “troppo presto per discuterne”, nel Paese dei Cedri “c’è un profondo attaccamento alla causa palestinese, in tutti gli strati della società, non solo tra i musulmani ma anche tra i cristiani”. “Finché la questione non sarà risolta e non ci sarà uno Stato palestinese, non vedo come Beirut possa avviare un processo volto a stabilire relazioni con Israele”.

In questo contesto si inserisce la presenza della missione Unifil nel sud del Paese dei Cedri. Il mese scorso ai caschi blu dell’Onu è stato rinnovato il mandato fino a dicembre 2026, cui pero’ dovra’ seguire il ritiro entro un anno. “Ne parlavo con i colleghi e sarebbe tragico per il Libano se se ne andassero entro un anno… ma ho l’impressione che non accadrà”, afferma Hayek. “Faccio fatica a immaginare un ritorno alla normalita’ al confine… Non vedo come le cose possano essere risolte dall’oggi al domani dopo la partenza delle forze Onu, perché non credo che Hezbollah abbandonerà la zona a sud del fiume Litani, che d’altra parte gli israeliani hanno trasformato in una mini-Gaza, radendo al suolo i villaggi sciiti”.

Senza dimenticare, aggiunge Hayek, che “Unifil non è li’ solo come forza deterrente ma anche per fornire servizi reali alla popolazione in una regione che è molto mal servita dalle autorità, dove ci sono pochissime risorse. Quindi andarsene cosi’, sarebbe anche drammatico per tutti i progetti portati avanti”.

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