AGI – Basta fare i ‘poliziotti del mondo’: agli Stati Uniti non interessa più lo scenario globale, quanto piuttosto il cortile di casa.
La Casa Bianca ha messo nero su bianco una svolta di fondo nella politica estera: meno ambizioni planetarie, più focus sul “vicinato” latinoamericano e sulla lotta alle migrazioni. È quanto emerge da un nuovo documento strategico sulla sicurezza nazionale che rivendica apertamente un “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe e ridisegna le priorità di Washington.
Secondo il testo, gli Stati Uniti abbandonano esplicitamente l’idea – coltivata per decenni dopo la Guerra fredda – di essere la potenza chiamata a garantire l’ordine globale. “Gli Stati Uniti respingono il concetto fallimentare di dominio globale”, si legge, chiarendo pero’ che Washington continuerà a impedire che altre grandi potenze dominino le rispettive aree d’influenza. La differenza, sottolinea il documento, è che gli Usa non intendono più “sprecare sangue e denaro per limitare l’influenza di tutte le grandi e medie potenze del mondo”.
Pechino resta il principale avversario
La strategia segna anche un ridimensionamento di uno dei capisaldi della politica estera recente, il “pivot to Asia” lanciato da Barack Obama per concentrare risorse militari e diplomatiche sul contenimento dell’ascesa cinese. Pechino resta indicata come principale avversario, ma il documento annuncia esplicitamente una “ri-regolazione della nostra presenza militare globale per affrontare le minacce urgenti nel nostro emisfero, allontanandoci da teatri la cui importanza relativa per la sicurezza nazionale americana è diminuita”. In altre parole: meno impegno in aree considerate secondarie, più attenzione all’America Latina, vista come fronte cruciale per il controllo dei flussi migratori, della criminalità organizzata e delle risorse strategiche.
Il richiamo alla Dottrina Monroe: cos’è?
Il passaggio forse più significativo è quello che richiama direttamente la Dottrina Monroe del 1823, con cui gli Stati Uniti dichiararono l’America Latina zona preclusa alle interferenze europee. Il documento accusa il “ritorno” di potenze rivali nella regione e annuncia: “Faremo valere e applicheremo un ‘Corollario Trump’ alla Dottrina Monroe”. Nella pratica, questo si traduce in tre direttrici: azioni in mare contro presunti narcotrafficanti e reti criminali, interventi politici per favorire la caduta di governi considerati ostili o “socialisti” – con un riferimento implicito al dossier Venezuela – volontà di “prendere in carico” infrastrutture e risorse chiave dell’area, come il Canale di Panama.
È un’impostazione che ricorda da vicino la fase più interventista della politica americana nel continente, dal sostegno ai colpi di Stato durante la Guerra fredda alle operazioni contro i regimi considerati vicini a Mosca o all’Avana. Ma, rispetto alla stagione di Ronald Reagan – che parlava di “crociata per la libertà” contro l’Unione Sovietica – la retorica di Trump è meno ideologica e più apertamente transazionale: l’obiettivo non è esportare la democrazia, ma ristabilire una sfera d’influenza funzionale agli interessi di sicurezza e di controllo dei flussi migratori verso il confine sud degli Usa.
Nel suo insieme, la nuova strategia si colloca in dialogo, spesso polemico, con le dottrine che hanno segnato la storia recente della politica estera americana. Con la “dottrina Bush” post-11 settembre condivide l’idea di una minaccia esistenziale (allora il terrorismo globale, oggi l’erosione dei confini e la competizione con le grandi potenze), ma se ne discosta nella rinuncia al “nation-building” e alle lunghe guerre di occupazione in Medio Oriente.
La difesa del “cortile” americano
Rispetto al “pivot” di obamiana memoria verso l’Asia, la priorità non è più la proiezione in teatri lontani ma la difesa del “cortile” americano: una sorta di ritorno alle origini della Dottrina Monroe, aggiornata al XXI secolo. Diversamente dal multilateralismo clintoniano, che vedeva nelle istituzioni internazionali e nelle alleanze un moltiplicatore di potenza, il documento di Trump critica apertamente alcuni partner europei e l’impianto di valori promosso dall’Unione europea, in particolare su migrazioni e accoglienza.
Se la Guerra Fredda era stata il tempo del contenimento globale dell’Urss, e il dopo-1989 quello dell'”iperpotenza” impegnata su tutti i fronti, la fase inaugurata da Trump propone una sorta di “realismo selettivo”: difendere con decisione gli interessi vitali nell’emisfero occidentale e lungo i confini, contenere i rivali sistemici, ma evitando l’idea – costosa e impopolare – di essere il gendarme del mondo. Un altro elemento di rottura rispetto al passato è il rapporto con gli alleati europei. Il documento non risparmia critiche a vari partner del Vecchio Continente e contrappone apertamente la linea Usa a quella dell’Unione europea sui dossier migratori.
Washington si presenta come campione delle forze politiche e sociali che contestano l'”approccio Bruxelles”, giudicato troppo aperto e permissivo in tema di asilo e accoglienza. In questo senso, la strategia di Trump segna una cesura rispetto alla tradizione bipartisan che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, vedeva nell’alleanza con l’Europa occidentale un pilastro intoccabile della proiezione americana. Se per Harry Truman e i suoi successori la Nato era il cuore dell’ordine liberale, e per Obama l’Unione europea un partner da rafforzare, nel documento trumpiano l’Europa appare più come un teatro saturo, da cui sganciarsi parzialmente per concentrare risorse altrove.
Le tre priorità dell’America
Il quadro che emerge è quello di un’America meno “universale” e più regionale, che rilegge il proprio ruolo alla luce di tre priorità: sicurezza dei confini e controllo dei flussi migratori, con un’enfasi inedita sulla dimensione interna della politica estera; riaffermazione dell’egemonia nell’emisfero occidentale, nel solco della Dottrina Monroe ma con strumenti e obiettivi aggiornati e competizione selettiva con le grandi potenze, Cina in testa, senza però la pretesa di plasmare ogni equilibrio regionale del pianeta. Resta da capire quanto questa impostazione sopravviverà ai cambi di amministrazione.
Nella storia americana, le dottrine presidenziali hanno spesso lasciato un’eredità di lungo periodo – dal contenimento di Truman alla distensione di Nixon, fino al “leadership responsabile” di Obama – anche quando i successori le hanno ufficialmente archiviate. Il “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe potrebbe seguire la stessa traiettoria, imponendo ai presidenti futuri una domanda di fondo: quanta global leadership gli Stati Uniti sono ancora disposti – e in grado – di esercitare?
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