AGI – Le Forze di difesa israeliane hanno lanciato un attacco di precisione contro il cancello principale della famigerata prigione di Evin a Teheran, nell’ambito della ‘Operazione Leone nascente’, prendendo di mira uno dei principali strumenti di repressione politica della Repubblica islamica. Le dichiarazioni ufficiali hanno descritto il raid come un colpo simbolico alla capacità del regime di detenere, torturare e mettere a tacere le voci critiche.
Evin è la struttura penitenziaria in cui sono rinchiusi dissidenti, prigionieri politici, giornalisti ma anche i cittadini stranieri (vi sono state imprigionate le due italiane Alessia Piperno e Cecilia Sala). È il simbolo del sistema di tortura decennale dell’Iran, fatto di percosse, scosse elettriche, tortura bianca (la privazione dei sensi e la pressione psicologica), violenza sessuale e negazione di cure mediche.
Costruita nel 1972 sotto l’ultimo scià Mohammad Reza Pahlavi, la prigione di Evin occupa un complesso di cinque ettari nella parte settentrionale di Teheran che, dopo la Rivoluzione islamica del 1979, fu riconvertita dal ministero dell’Intelligence come principale centro di detenzione del regime per i prigionieri politici. Soprannominata ‘Evin University’ per l’alto numero di studenti e accademici incarcerati, si stima che vi siano detenuti in 10.000-15.000, tra manifestanti, giornalisti, accademici, persone con doppia cittadinanza e stranieri accusati di spionaggio o “inimicizia contro Dio”.
I governi occidentali e le organizzazioni per i diritti umani considerano da tempo Evin l’epicentro del sistema iraniano di arresti arbitrari e processi segreti. È passata per Evin anche la premio Nobel per la Pace Narges Mohammadi. Proprio lei, insieme a gruppi per i diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watch, ha documentato e raccontato il diffuso uso a Evin della deprivazione sensoriale, la cosiddetta “tortura bianca” quando i prigionieri bendati sono sottoposti a un prolungato isolamento, progettato per distruggere sia il corpo che la mente.
Queste pratiche, attuate in modo sistematico, servono sia a estorcere confessioni forzate sia a terrorizzare potenziali critici del regime. La reputazione di ferocia di Evin si estende oltre i dissidenti iraniani, fino ai cittadini stranieri finiti nel mirino della repressione politica della Repubblica islamica. La fotoreporter irano-canadese Zahra Kazemi è morta a Evin nel 2003; l’autopsia ne ha rilevato fratture craniche, gravi contusioni e prove di violenza sessuale, scatenando indignazione internazionale e una crisi diplomatica.
Tra gli eventi più tragici legati a Evin vi è il massacro di migliaia di prigionieri politici nel 1988. Ma Evin è anche un simbolo della forza e resistenza del popolo iraniano: è regolarmente teatro di proteste e scioperi della fame in solidarietà alle manifestazioni antigovernative che ciclicamente attraversano l’Iran ma anche per chiedere il rispetto dei diritti dei detenuti.