AGI – Per la sua bellezza era stata soprannominata Stella, per la sua spregiudicatezza diventerà la Pantera Nera, “la spia di piazza Giudia”. Celeste Di Porto venne alla luce il 29 luglio 1925 nel ghetto ebraico di Roma, da una famiglia umile. E infatti andò presto a servizio, sia nelle famiglie ebraiche più facoltose, sia nei locali come cameriera. Quando nel 1938 nell’Italia fascista vennero promulgate le Leggi razziali, lei lavorava in un ristorante in piazza Giudia, “Il fantino”, frequentato anche dalle camicie nere. Tra di esse, un losco figuro come Vincenzo Antonelli, che non si fece alcun problema nell’intrecciare una relazione con la bella ragazza ebrea, nonostante in pubblico si dimostrasse antisemita; e neppure la sedicenne Celeste, che era stata promessa in sposa a un giovane correligionario, ebbe scrupoli a legarsi un fascista.
Le frequentazioni pericolose e l’occupazione nazista
Se i tempi di guerra erano duri, quelli dell’occupazione nazista si riveleranno durissimi. Un conto erano le discriminazioni italiane, un altro le persecuzioni tedesche e la deportazione nei lager. La bellezza di Celeste e le sue frequentazioni compromettenti in qualche modo parevano metterla al riparo. Quanto alle chiacchiere sulla sua vita privata, assai disinibita, non se ne curava affatto. E da quella situazione di privilegiata presto trovò anche il modo di guadagnarci. Da un lato poteva intercedere per parenti e amici, avvisandoli per tempo grazie alla sua rete di conoscenze negli ambienti nazifascisti, dall’altro arricchire con i premi promessi dalle autorità a chi collaborava: la consegna di un ebreo valeva 5.000 lire. Stella, a diciotto anni, si stava trasformando nella Pantera Nera, informatrice e spia per conto della Polizia politica nazista. In seguito raccontarono che il metodo per far individuare gli ebrei che vivevano a Roma era semplice: se si fermava per strada e abbracciava una persona, quello era un segnale preciso per la squadra di Antonelli che la seguiva a distanza e appena lei si allontanava procedeva all’arresto.
Le responsabilità per la lista delle Fosse Ardeatine
Ai nazisti non bastava la razzia del Ghetto del 16 ottobre 1943, con oltre mille deportati ad Auschwitz, perché altri ebrei erano riusciti a sfuggire alla retata delle SS di Herbert Kappler e altri ancora si mescolavano alla popolazione romana. Dopo l’attentato dei Gap a via Rasella, il 23 marzo 1944, era scattata la rappresaglia tedesca. Il solito Antonelli chiese all’amante Celeste Di Porto di contribuire a completare la lista dei “candidati alla morte” con gli ebrei. La ricompensa era stata decuplicata. Sarebbe stata lei a indicare 26 ebrei, e tra di essi anche il cognato e il cugino, mentre all’ultimo momento il nome del fratello Angelo venne sostituito con quello del giovane Lazzaro Anticoli, un pugile che era noto col nome di Bucefalo.
Le denuncia di Bucefalo nel carcere di Regina Coeli
Da lui sarebbe arrivata una tremenda testimonianza, incisa con un chiodo nella parete di una cella del carcere di Regina Coeli: “Si non arivedo la famija mia è colpa de quella venduta de Celeste Di Porto. Rivendicatemi”. Anticoli sarebbe stato massacrato il 24 marzo alle Fosse Ardeatine, assieme ad altri 334 innocenti. Ma il suo atto d’accusa sarebbe rimasto. C’era voluto poco nell’indicare nella donna la responsabile delle denunce. Secondo il passaparola era una spia senza scrupoli e un’avida profittatrice. Tutti la scansavano, eppure continuava tranquillamente a condurre la bella vita. Fino agli inizi di giugno del 1944, quando con l’arrivo degli Alleati a Roma lei scompare, assieme al sistema di potere e di squallore. Celeste era andata a Napoli, dove nessuno la conosceva e nessuno poteva riconoscerla come la Pantera Nera, e per sopravvivere col nome di Stella Martellini fece quello che Curzio Malaparte descrisse crudamente ne “La pelle”. Non poteva immaginare che due suoi clienti giunti nel casino fossero ebrei, e che subito dopo la denunciarono per farle pagare i suoi crimini. Arrestata, sottratta a un tentativo di linciaggio e poi rilasciata, cercherà di far perdere le sue tracce rifugiandosi per un anno in un convento a Perugia.
Il processo, la condanna, la conversione e il matrimonio
Ma non sfuggì alla giustizia. Al processo ebbe come avvocato difensore il principe dei penalisti italiani, Francesco Carnelutti, in un clima drammatico e irreale in un’aula in cui i parenti delle sue vittime la insultavano a ogni modo. I giudici la condannarono a 12 anni di reclusione ma non li scontò tutti. Un po’ per gli effetti dell’indulto, un po’ per la conversione al cattolicesimo, fu liberata prima. Quindi si trasferì a Trento, imparò a fare la sarta, si innamorò del figlio della donna che le insegnava a tagliare e cucire, Aldo Forlani, e se lo sposò. Il matrimonio venne celebrato nel 1951 ad Assisi nella cripta di San Francesco. Le nacque una figlia. Per trenta anni fece di tutto per farsi dimenticare. Tornò a Roma dove morì il 13 marzo 1981 a 56 anni, ma ne dimostrava molti di più. Celeste Di Porto era scomparsa da tempo dalle cronache ma non nel ricordo di quello che aveva fatto.