AGI – ‘Familia’, il film italiano candidato all’Oscar, nasce dall’adattamento di ‘Non sarà per sempre così’ di Luigi Celeste. Adriano Chiarelli, co-sceneggiatore insieme a Vittorio Moroni, racconta la genesi del progetto e le sfide affrontate.
Com’è nato il film?
“L’idea è arrivata dal produttore che aveva letto il libro e ci ha proposto di adattarlo e abbiamo iniziato a lavorare sulla sceneggiatura a partire da quel testo”.
Quando avete cominciato a scrivere, il tema della violenza di genere era già così presente nel dibattito pubblico?
“Sì, l’intensità era molto simile a quella di oggi. Da subito abbiamo avuto la sensazione che il film si sarebbe inserito in un discorso già aperto e molto dibattuto. La nostra speranza era che lo potenziasse, che aggiungesse qualcosa, che avesse anche una funzione civile oltre che artistica”.
C’è il rischio che si parli troppo di violenza di genere e che il pubblico finisca per assuefarsi?
Il rischio c’è, soprattutto leggendo le cronache. Ormai le notizie di femminicidi sembrano la conta dei morti in guerra. È un pericolo reale: quello che il tema diventi routine e non faccia più notizia. Il dovere civile è restare vigili, consapevoli di questo rischio, e continuare a fare informazione e attivismo, mantenendo lucidità e attenzione su un fenomeno che non accenna ad attenuarsi.
Quali sono i punti di forza del libro e del film?
“Il libro ha un grande pregio: è un racconto autobiografico, in prima persona, lucido e mai autoassolutorio. Celeste si assume la responsabilità delle sue azioni. Nel film abbiamo cercato di mantenere quel tono autentico, pur selezionando alcuni passaggi: quelli più violenti li abbiamo scelti di non mostrarli. Abbiamo lavorato molto per trasmettere la sensazione di un assedio costante da parte dell’uomo violento, un assedio che non riguarda solo la donna ma che contagia l’intera famiglia, come un’infezione che devasta i rapporti fino al tragico epilogo”.
Il film non ha ancora una distribuzione negli Stati Uniti. Quanto può essere compreso dal pubblico americano?
“Dipenderà da quanto la società americana sente questo tema. Ci sono spinte conservatrici e radicali che cercano di occultare certe problematiche, ma la storia dimostra che gli Stati Uniti hanno anche gli anticorpi contro l’oscurantismo. Penso, ad esempio, all’Oscar assegnato al documentario sulla Palestina: un premio simbolico, inaspettato, che ha dimostrato l’esistenza di correnti opposte rispetto alle spinte censorie”.
Cosa rappresenta per voi la candidatura all’Oscar?
“È già un grande risultato. Siamo contenti e incrociamo le dita: per noi questa candidatura è di per sé un traguardo importantissimo”.