AGI – Tre mesi di duro assedio all’ombra della croce, in quaranta contro migliaia. Ventinove fucilieri di marina francesi e dodici italiani dal 15 giugno al 16 agosto 1900 impediranno con la forza delle armi e con il coraggio individuale il massacro di migliaia di cinesi cristiani durante la Rivolta dei Boxer difendendo la chiesa del Salvatore (o di Pe-tang) a Pechino, rimasta isolata dalle legazioni europee. Il contingente franco-italiano, coordinato nella difesa da Pierre-Alphonse-Marie Fevrier, vicario apostolico, era sotto il comando del sottotenente di vascello Paul Henry e del pari grado Angelo Olivieri.
Sotto i bombardamenti con poche scorte di cibo e di munizioni
I fanti di marina italiani erano stati inviati di rinforzo ai francesi dal comandante del distaccamento regio a Pechino, il tenente di vascello Federico Tommaso Paolini. La città ribolliva di violenze animate dalle sette nazionaliste e con l’appoggio più o meno scoperto dell’esercito regolare imperiale. La missione cattolica, che si estendeva per circa un chilometro quadrato, era divisa in due parti: una a nord occupata dalle suore, l’altra a sud dai missionari. In un primo tempo vi avevano trovato rifugio circa 600 cinesi cristiani, ma il numero era rapidamente cresciuto fino a 4.000. Agli italiani era stato assegnato il presidio del settore settentrionale. Dal 5 al 15 giugno, periodo che scorre in relativa tranquillità (e infatti non si verifica alcun attacco), vengono approntate le opere di difesa, con terrapieni di rinforzo dei muri di cinta e linee di trincea per fronteggiare la prevista aggressione dei Boxer. I cattolici cinesi che riescono a raggiungere la missione raccontano infatti di violenze indiscriminate ed esecuzioni spietate in città.
Il sottotenente di vascello Olivieri guida la resistenza
Olivieri dispone continui turni di guardia di due ore e divide il suo drappello in due reparti mobili affidandoli al secondo capo cannoniere Pietro Marielli e al sottocapo cannoniere Regolo Zappi. Nel pomeriggio del 15 circa duecento Boxer armati di sciabole, lance e coltelli, riconoscibili da una sorta di uniforme bianca e blu con una cinta rossa, lanciano il primo assalto.
I francesi li fermano con due precise ed efficaci scariche di fucileria. Fino al 21 giugno non si faranno più vedere, mentre si sentono distintamente le cannonate contro le legazioni occidentali e si vedono i bagliori degli incendi a Pechino, che per 55 giorni sarà messa a ferro e fuoco. Nella prima mattinata del 22 un intenso tiro di artiglieria viene indirizzato contro la cattedrale. È il segnale d’inizio della battaglia al quale partecipa l’esercito regolare cinese anche con grossi reparti di fanteria che aprono il fuoco di fucileria da tutti i lati. Una coraggiosa sortita dei francesi consente di impadronirsi di un piccolo e vecchio cannone ad avancarica e gli assediati fondono le palle di piombo e preparano la polvere da sparo per servirsene. Il bombardamento è continuo, e incessante è il tiro delle armi leggere.
A luglio per la fame vengono macellati i cavalli e i cani
Il 24 giugno viene attaccata direttamente la parte nord tenuta dagli italiani. Un gran numero di Boxer muove all’attacco dopo il fuoco intenso dell’artiglieria, ma le linee dei marinai tengono e aprono ampi varchi tra i cinesi col tiro dei moschetti. Gli uomini di Olivieri devono proteggere 14 suore e 900 donne in uno scenario di guerra. I giovani cinesi aiutano nel ripristino dei terrapieni e alcuni missionari, tra i più giovani, imbracciano il fucile. Il 26 viene scatenato un attacco ad alta intensità dal sovrastante muro imperiale, settore di più difficile difesa. Alla fine del mese più di metà delle cartucce è stata sparata e ne rimangono pochissime centinaia, per un assedio che non si sa fino a quando potrà durare. Nessun volontario che si è offerto per andare a chiedere aiuto alle legazioni torna indietro. Ma a Pe-tang i Boxer non sfondano, nonostante le grandinate di proiettili e gli incendi che appiccano continuamente. Nel primo periodo dell’assedio, scriverà Olivieri, “ho constatato con immenso piacere che i miei uomini sono degli ottimi elementi”. A luglio, per la fame, vengono macellati i cavalli e i cani.
“Potremmo andare avanti ancora per un altro mese, ma speriamo di essere liberati prima”. Non c’è un momento di tregua. L’ordine ai marinai italiani è di lasciare da parte l’ultima confezione di cartucce “per l’ultimo momento”. Altre vengono recuperate e ricaricate artigianalmente. “La vita si fa di giorno in giorno più penosa”.
Premio in danaro per ogni testa di europeo e un’apocalittica esplosione
Ma gli assediati, nonostante le perdite e lo scarso numero, resistono persino ai razzi incendiari cinesi e a un intenso e preciso fuoco di artiglieria ben protetta, contro cui è inutile sprecare munizioni per cercare di neutralizzarla. Il 9 luglio duemila cinesi si rovesciano a ondate contro le posizioni franco-italiane, ma ogni tentativo viene respinto, così come quello del giorno dopo. Olivieri annota pure che quando la fame sarà insopportabile si dovrà attaccare alla baionetta con una disperata sortita.
Gli assedianti sono stimati in circa diecimila. Anche le vicine ma isolate legazioni sono sotto continui attacchi e resistono in attesa dell’arrivo di un contingente internazionale. Il 14 viene colpito mortalmente alla testa il marinaio Danese, mentre si sente distintamente il lavoro di scavo dei Boxer che li porterà a piazzare una mina sotto alle postazioni dei difensori. Alle 4.40 del 15 un’impressionante deflagrazione seppellisce cinque marinai e apre una gigantesca breccia. Il 25 luglio circa 800 Boxer attaccano il lato presidiato dagli italiani, ma i marinai riescono a respingerli con un tiro micidiale. Olivieri fa realizzare e piazzare una grossa mina, che sarà l’ultimo disperato atto della battaglia se non arriveranno aiuti. Altri marinai restano feriti nei furiosi combattimenti. Il 29, giorno sanguinoso, cade il sottotenente Henry e il comando generale è assunto da Olivieri. I viveri sono razionati e i Boxer promettono ai cinesi dentro la missione una ricompensa in danaro se porteranno loro le teste degli europei.
L’arrivo delle truppe giapponesi e la liberazione
Il 3 agosto i marinai superstiti hanno un centinaio di proiettili in tutto. Olivieri pensa a una estrema sortita dei 12 francesi e dei 5 italiani assieme a decine di civili cinesi, ma il vescovo lo fa desistere: meglio attendere che i viveri siano totalmente esauriti. Attacchi furibondi e giorni di calma snervante si susseguono. Alle ore 6 del 12 agosto una mostruosa esplosione di una mina travolge la zona della missione. Anche il comandante viene sepolto sotto terra e macerie.
Cinque marinai incuranti del tiro cinese scavando a mani nude cercano di tirare fuori lui e cinque fanti. Il cannoniere Roselli non sopravviverà alle ferite, e così il marinaio Colombo. Per altri due, il secondo capo cannoniere Marielli e il cannoniere Piacenza, dopo ore non ci sono più speranze. Il 14 agosto le cartucce sono appena 50 e non ci sono più viveri. Dopo la mezzanotte un prodigioso rumore di cannoni e fucili occidentali che arriva da Pechino rivela che la liberazione è vicina. Le scene di giubilo nella missione sono incontenibili. Il 16 l’apparizione di soldati giapponesi trasforma la speranza in realtà. È finita. Tra i soccorritori c’è anche il tenente Paolini. Dei quaranta difensori, 11 erano morti, 7 gravemente feriti. 15 leggermente feriti. Dei dodici italiani la metà era caduta in combattimento. Olivieri, ferito nello scoppio della mina, verrà decorato di medaglia d’oro al valor militare.