Nel 1985 il mondo aveva il fiatone del Novecento, ma nessuna intenzione di fermarsi. Alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan, al Cremlino Mikhail Gorbaciov. L’Italia di Craxi provava a guardare avanti, tra grandi ambizioni ed enormi contraddizioni. Il 1985 era la Guerra Fredda che cominciava a sciogliersi con l’Europa ancora divisa da un muro. L’anno dei Queen a Wembley per il live Aid con la Thatcher a Downing Street. Maradona già faceva sognare Napoli, mentre l’NBA scopriva Michael Jordan. Ayrton Senna stringeva forte il volante e il mondo piangeva la strage dell’Heysel. Nell’infinità del cielo si scopriva il buco nell’ozono e dalla profondità del mare riemergeva lo scheletro del Titanic. Era il tempo dei walkman, delle VHS impilate accanto a una TV grossa e ingombrante. Era una Polaroid che scattava il presente e un fax che consegnava il futuro. Tutti cantavano “We Are the World”, convinti che una canzone potesse unire il pianeta. Al cinema usciva Ritorno al Futuro, in libreria Rumore Bianco.
Ma quarant’anni fa nasceva anche una generazione di atleti che avrebbe riscritto regole e infranto record. C’è chi è ancora lì, in prima linea. E c’è chi ha già voltato pagina. Ma le loro storie, oggi, raccontano cosa vuol dire resistere, reinventarsi, lasciare un segno.
Questa è la grande storia della classe sportiva del 1985.
Capitolo 1, Cristiano Ronaldo
Capitolo 2, Michael Phelps
“Per molto tempo mi sono visto solo come un nuotatore. Quando ho smesso, non sapevo più chi fossi.” Michael Phelps è l’atleta più forte della storia delle Olimpiadi. Lo dicono i numeri, le medaglie d’oro, i record. Ma durante la sua carriera è stato anche un uomo fragile, pieno di domande e di dubbi. E quando il rumore dell’acqua, delle bracciate, delle gambate si è spento d’un tratto, intorno a lui è rimasto solo il silenzio. Un silenzio in cui tutte le ombre prendevano corpo e diventavano più spaventose. Del resto, uno che vince tutto… che cosa fa poi nella vita? Come può alzare ancora l’asticella, se in alto non c’è più spazio? Come ci si reinventa dopo ventotto medaglie olimpiche, di cui ventitré d’oro? Nessuno, forse, arriverà mai dove è arrivato lui. Ma fuori dalla vasca è tutta un’altra storia. Quella di Michael Phelps, nato il 30 giugno 1985 a Towson, sobborgo residenziale di Baltimora, è una vita divisa in due: una dentro, e una fuori dall’acqua.
Un luogo speciale
Baltimora non è Los Angeles né New York, ma nel mondo del nuoto è una capitale silenziosa, una bandierina ben riconoscibile. A fare la differenza, soprattutto dagli anni ’90 in poi, è stato il North Baltimore Aquatic Club (NBAC), una piccola fucina di campioni che ha avuto un impatto sproporzionato rispetto alle sue dimensioni. Fondato nel 1968, è diventato uno dei centri d’élite del nuoto statunitense. È qui che Bob Bowman, l’allenatore di Phelps, ha sviluppato il suo metodo. Ed è qui che Phelps è cresciuto, è migliorato, ha preparato ogni grande manifestazione. Bowman ha raccontato spesso che “non c’era nulla di straordinario nelle infrastrutture, ma c’era una cultura del lavoro che non si insegnava”.
Towson non è un quartiere difficile, ma neanche un luogo di matrice disneyana. È periferia americana di medio livello, con scuole pubbliche, prati tagliati regolarmente e centri sportivi dove si passa il tempo prima di tornare a casa. In quella città, Phelps ha cominciato a nuotare non per ambizione, ma per necessità. Baltimora non è solo lo sfondo della sua infanzia: è la lente attraverso cui leggere molte delle sue scelte. Una città dura, piena di contrasti. Ricca di storia, ma segnata da decenni di disuguaglianze, segregazione urbana e criminalità più o meno diffusa.
Il padre, Fred, se ne va quando Michael non ha ancora compiuto nove anni. La madre, Debbie, tiene insieme la famiglia come può. Michael ha due sorelle più grandi, nuotatrici bravissime. Lui, a scuola, non ci sa stare. Non nel senso dei voti o delle materie: il problema è fisico. Le gambe non gli stanno mai ferme, la testa corre più veloce del resto. Alle elementari gli diagnosticano l’ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder): iperattività, difficoltà di attenzione, incapacità di seguire il ritmo dei compagni. “La mia insegnante d’inglese mi disse che non avrei mai combinato nulla di buono”, ricorderà più tardi. Troppa energia, troppa irrequietezza. “I’m always going”, dice. Era sempre in movimento.
Prima di trovare il nuoto, ne prova tanti. Forse troppi. Baseball, calcio, lacrosse, golf, wrestling, ginnastica. Ogni pomeriggio è un cambio di sport. Sua madre Debbie, insegnante, lo accompagna ovunque, come un tassista. “Provava qualsiasi cosa esistesse”, dirà più tardi. Ma niente lo prende davvero. Non si aggancia a nulla. Gli manca qualcosa: una direzione, un ritmo, un posto dove stare. Fa fatica a concentrarsi, a stare alle regole, a tenere la testa accesa per più di qualche minuto. Tutto gli scivola addosso. Finché non arriva la piscina.
All’inizio, persino l’acqua lo spaventa. È ironico considerando tutto quello che sarebbe venuto dopo. Quando lo portano per la prima volta in piscina Micheal non vuole mettere la testa sotto. Gli istruttori insistono, ma lui, 7 anni, resiste. Rimane a galla, con gli occhi fuori, terrorizzato dall’idea di affondare. Non è paura del nuoto in sé. È la perdita di controllo, l’idea di non sapere cosa succede lì sotto. Per un bambino già agitato di suo, è troppo. Poi qualcosa cambia. Lentamente. Giorno dopo giorno, scopre che l’acqua non è un pericolo, ma un’amica, un rifugio. Che laggiù c’è silenzio, che il corpo si muove meglio che sulla terraferma. La paura lascia il posto alla familiarità. È una simbiosi che ha avuto bisogno di tempo ma che si è realizzata in pieno.
Poi ci sono Hilary, la sorella maggiore, e Whitney, quella di mezzo. Quella che fa sul serio. Nuota a livello nazionale, partecipa a gare in tutto il Paese, sfiora la qualificazione olimpica. Ha una routine da professionista. Verrà frenata solo da una schiena piena di problemi. Michael la osserva e la invidia anche un po’. Quando la vede partire per una gara, salire sul blocco, tuffarsi, rientrare stanca ma soddisfatta, capisce che il nuoto può essere qualcosa di più divertente di un’attività extrascolastica. “Quando la vidi partire per Roma, per gareggiare con atlete da tutto il mondo, ho capito che mi sarebbe davvero piaciuto fare quella vita”.
Il nuoto, per sempre
A undici anni, Michael entra nel North Baltimore Aquatic Club e ad accoglierlo c’è proprio Bob Bowman, tecnico metodico, rigido, maniacale. Un guru, si direbbe oggi. Ha già molta esperienza, ma non ha mai avuto tra le mani un talento puro e da costruire da zero. Lo trova in quel ragazzino alto, lungo, magro, con piedi enormi, spalle strette e un’energia difficile da contenere.
Il primo impatto però è brutale. “Dopo il primo incontro sono tornato a casa pensando: non nuoterò mai più per quell’uomo, è un pazzo”. La mamma sorride perché conosce entrambi. Bowman fischia forte, in continuazione. Varia toni e altezze dei suoi richiami in base a ciò che vuole dire, usa il bordo vasca come una pista. Michael lo guarda e si spaventa. “Dissi a mia mamma che non volevo più andarci, mai più.” Ma invece resta. Continua a presentarsi, ogni mattina. E Bowman comincia a osservarlo. Capisce subito una cosa: il ragazzo va forte. Più forte della media, più forte anche di molti atleti più grandi. Ha la struttura giusta, diversa ma efficace e, soprattutto, una mente competitiva. Risponde agli stimoli, accetta le correzioni, anche lamentandosi, e non si tira indietro. Ma è complicato. Testardo, emotivo, imprevedibile. “Abbiamo avuto una marea di scontri faccia a faccia”, dirà Bowman. “Ci sono stati giorni che passeggiavo nervoso gridando le peggiori oscenità”. Michael lo provoca, spesso di proposito. Ma i due non si mollano mai. “La verità? Semplice. Eravamo il miglior team possibile. Il più forte in assoluto”.
A undici anni, Michael fa anche un’altra scelta. Niente più calcio, baseball, lacrosse. Solo nuoto. La richiesta è di Bowman. Il potenziale c’è, ora arrivano i sacrifici. Per un adolescente speciale significa smettere di essere un adolescente normale. “Ho detto ok. Sentivo di potermi fidare”. A quel punto Bowman imposta un programma su misura. Vasche su vasche. Allenamenti e allenamenti. Nessun giorno di riposo. Mai. Nemmeno il giorno del compleanno. Nemmeno a Natale. “Mi alzavo, aprivo i regali, ringraziavo e poi andavo a nuotare”. Phelps entra in una routine spietata che dura 5 anni. Del resto “Se vuoi essere il migliore, devi fare cose che gli altri non sono disposti a fare. E a quel punto sapevamo che facendo così avremmo avuto 52 giorni di allenamento in più di chiunque altro, ogni singolo anno”.
In Bowman trova qualcosa che non aveva mai trovato in nessun adulto: una persona che credeva davvero in lui. “Mi ha fatto capire, per la prima volta, che avrei potuto fare qualunque cosa. Qualunque cosa volessi. Mi mancava il fatto di non avere un padre, mi mancava davvero, e Bob è stato importante”. Un giorno, Bowman gli dà un foglio. Gli chiede di scrivere il suo sogno più grande. Qualcosa di concreto, raggiungibile negli anni successivi. Michael prende una penna e scrive: “Qualificarmi alle Olimpiadi di Sydney 2000”. Ma quella non era la sua prima scelta. Bob gira il foglio e sul retro, abbozzata, c’è un’altra frase, più ambiziosa, più fragile. “Voglio vincere l’oro alle Olimpiadi di Sydney 2000”. Una frase cancellata con tratti di penna. Michael, forse, si era accorto che stava andando oltre, che stava sognando troppo in grande, troppo in fretta. Ma quella frase, anche cancellata, era lì. “Da allora ho sempre scritto i miei obiettivi su un foglio di carta”, dirà anni dopo. Un modo per dargli sostanza. E per crederci un po’ di più.
15-year-old Michael Phelps is hopeful he’ll win a gold medal some day https://t.co/ZvrbOSYzmv pic.twitter.com/KdpWEJZTPH
— CNN (@CNN) August 16, 2016
Sydney 2000
Per andare alle Olimpiadi, in America, c’è un solo modo: arrivare primi o secondi ai Trials. Nient’altro conta. Non importa quanti record hai battuto prima, quanto sei giovane o promettente. Quel giorno, in quella vasca, devi essere tra i primi due. Altrimenti resti a casa e butti via anni di allenamenti. La sua specialità, il suo cavallo di battaglia, sono i 200 farfalla. Phelps ha appena 15 anni e gareggia con atleti più forti, più esperti e, soprattutto, più pronti di lui. È magrissimo, affamato, quasi monocorde nel modo in cui si allena. Fa le stesse cose ogni giorno, senza distrazioni. Dorme, mangia, nuota. Ripete. Non ha ancora il fisico pienamente sviluppato, ma ha già un’efficienza fuori norma e una tenuta mentale che impressiona gli allenatori. Qualcuno si è interessato a lui, ai suoi progressi. I tempi sono ottimi ma sembra ancora troppo acerbo per farcela. In fondo è arrivato dal nulla e deve ancora dimostrare (quasi) tutto.
Ma i numeri sono chiari: se fosse riuscito nell’impresa, sarebbe stato il più giovane americano negli ultimi 68 anni ad andare alle Olimpiadi. E non sarebbe stato solo il nuotatore più giovane della squadra per Sydney, ma il più giovane dell’intero team americano ai Giochi. Nuota 1:56.50 in semifinale, poi si conferma in finale. Chiude secondo, dietro Tom Malchow, che di anni ne ha 24, e sarà oro a Sydney. Il secondo posto, come detto, gli basta: biglietto staccato per l’Australia. È fatta. Obiettivo centrato. Check it.
Sydney è lontana anni luce da Baltimora e il villaggio olimpico è una città nella città. Atleti ovunque, microfoni, bandiere, lingue diverse, autobus che partono a orari precisi. Phelps ha 15 anni e non è mai uscito dal suo Paese. Passeggia con una tuta con la scritta USA sulle spalle e osserva tutto come fosse un lillipuziano (seppur altissimo) in mezzo ai giganti. Un giorno, racconta, si dimentica persino il badge arrivando tardi alla vasca di allenamento. Bob, che non può seguirlo da vicino, si ritrova più volte a dover tenere a freno la sua impazienza, la sua immaturità.
È un esordiente. È lì per imparare, dicono. Lui ascolta tutto, ma non dice molto. È nervoso, le mani sudano. La sua unica gara è quella dei 200 metri farfalla. Nuota bene, senza sbavature. Entra in finale. Quinta corsia. Davanti a sé i migliori al mondo. All fine tocca quinto. Nessuna medaglia, nessun titolo. “La cosa incredibile è che non mi ero nemmeno sistemato del tutto il costume. Non ero per nulla pronto. Mentalmente, fisicamente”. Più che salire sul podio, rischia di rimanere nudo in vasca. Per fortuna il costume tiene. Vince Malchow con 1.55.35 davanti all’ucraino Denys Sylantyev e all’australiano Justin Norris. Phelps, con il suo tempo, 1.56.50, è a soli tre decimi dal terzo, dal podio, dalla medaglia olimpica.
Il pubblico lo nota. Gli addetti ai lavori lo segnano. Gli allenatori parlano di “potenziale assoluto”. Ma a Michael non basta. Lo dice con pochi gesti, ma è chiaro. Per lui non era sufficiente esserci. Voleva qualcosa di più. E ora sa quanto manca. È talmente incavolato che, una volta tornato a casa, rinuncia alle vacanze. Il giorno dopo è già in piscina. Bob allora prende un nuovo foglio e fissa un altro ‘goal’. Due sole lettere: WR. World Record. Record del mondo. E da anche una tempistica: 6 mesi. Sydney, all’improvviso, è già alle spalle. È servita davvero a fare esperienza e ad alimentare la sua competitività. Ai prossimi giochi, Michael arriverà pronto. In mezzo, però, ci sono altre tappe importantissime.
Un corpo perfetto
Nel nuoto, il corpo è quasi tutto. E Michael Phelps lo ha. Piedi enormi, taglia 48 abbondante, simili a pinne. Mani larghe, che spostano più acqua di chiunque altro. Spalle mobili, anche elastiche, caviglie che ruotano oltre la norma senza dargli troppi problemi. È flessibile in ogni articolazione. “Ero davvero snodato. Mi muovevo come volevo in acqua”. La sua apertura alare supera i due metri, più larga della sua altezza (1,93). Le gambe, invece, sono leggermente più corte di quanto sarebbero dovute essere.
“Ero alto e corto, allo stesso tempo, nei punti giusti”
Ma Phelps ha anche un torso ampio, idrodinamico, che gli consente di planare nell’acqua come fosse una piccola imbarcazione. Fa pochissime bolle, pochi schizzi, non spreca movimenti. Nel nuoto più bracciate vuol dire più fatica. Michael, invece, riduce il numero di bracciate necessarie grazie all’estensione delle braccia, alla spinta iniziale dei piedi, e alla meccanica del gesto. Ma non è solo struttura. C’è qualcosa di invisibile, ma decisivo: una capacità di resistenza e recupero fuori scala. Tiene più a lungo. Torna al top più in fretta. E soprattutto, sa “aggrapparsi all’acqua”, come dicono i tecnici. Dopo Sydney, quel corpo è già lì, in via di definizione.
Ma ancor di più conta l’aspetto mentale. È ancora Bowman a riassumere nel migliore dei modi le capacità del suo atleta: “È il migliore che abbia mai visto, e forse il più forte di sempre, in termini di visualizzazione della prestazione sportiva. Si immagina la gara in ogni dettaglio: difficoltà, imprevisti, tutto. E poi, in vasca, sceglie la tattica che già ha provato e vissuto nella sua testa”. Ed è uno che lascia fuori tutto. “Non importa quali pensieri avesse nella testa, in gara performava sempre come una macchina. Michael è forse la persona più capace al mondo a mantenere la concentrazione su ciò che va fatto”. E fila via come un treno. Non è un caso se, nel corso della carriera, lo chiameranno “squalo” o “proiettile”.
Fukuoka 2001
Il primo record mondiale Phelps lo stabilisce il 30 marzo 2001 ai Campionati Nazionali americani di Austin, Texas. Ha solo 15 anni e 9 mesi. Gareggia sempre nei 200 metri farfalla e ferma il cronometro a 1:54.92, migliorando il precedente primato di Tom Malchow (1:55.18). È un momento storico, Phelps diventa il più giovane nuotatore della storia a infrangere un record mondiale in vasca lunga, battendo il precedente primato di Thorpe. Ancora una volta, l’obiettivo scritto sul foglietto è centrato. Ma quel tempo non è solo un numero: è la soglia d’ingresso nell’élite globale dello sport. Pochi mesi dopo, ai Mondiali di Fukuoka, quel tempo è di nuovo sotto attacco. Il record è buono ma frantumabile, lo sa bene Bob e anche Michael. Malchow ci prova. Anche il francese Frank Esposito vola nella seconda semifinale. Phelps, che ha faticato nella prima, li osserva. È scosso, quasi frustrato. Si gira verso e dice: “Stanno cercando di prendersi il mio record.” Ha solo sedici anni. In finale, però, non trema. È preciso, feroce. Chiude in 1:54.58. È record, di nuovo. Ed è campione del mondo. Ma la stella di Fukuoka, in quei giorni, ha un altro nome: Ian Thorpe. Diciott’anni, sei ori, tre record infranti. L’australiano si prende tutte le luci della ribalta lasciando a Phelps solo le briciole dell’attenzione dei media.
Barcellona 2003
A Barcellona Michael Phelps è il nuotatore americano con più gare in programma. È quello con più margini di crescita e più domande intorno al suo nome. Non si limita al suo cavallo di battaglia, la farfalla, ma allarga il raggio. Soprattutto nei 200 stile libero, una gara che appartiene ad altri atleti costruiti per la velocità progressiva, per il controllo del ritmo. Ma Phelps, in terra catalana, domina. Non solo vince, ma lascia dietro proprio Ian Thorpe, uno che fino a quel momento sembrava intoccabile. Un risultato che fa rumore. Poi però ci sono i 100 farfalla, e stavolta è lui a dover inseguire. In finale arriva secondo, dietro Ian Crocker, che è anche suo compagno di squadra. Ma soprattutto, è l’uomo che gli strappa un record del mondo. Crocker ferma il cronometro a 50.98: è il primo uomo nella storia a scendere sotto i 51 secondi. Stavolta l’obiettivo non è centrato, qualcuno lo ha preceduto. È una di quelle cose che lo fa letteralmente impazzire.
Il bottino resta pesante: sei medaglie, di cui quattro d’oro. Ma a colpire è altro. A Barcellona Phelps dimostra tenuta, adattabilità, resistenza mentale. È la prima vera competizione in cui è chiamato a primeggiare per giorni, con ritmi serrati, batterie, finali, staffette, microfoni, cronometri, giudizi. E lui ci sta. Perde qualcosa, vince molto. Ormai nessuno ha più dubbi: ha le potenzialità del campione. Toccherà a lui dimostrarlo. Barcellona è il punto in cui la traiettoria cambia. Il momento in cui Michael Phelps passa da essere un ragazzo molto talentuoso a diventare un atleta da progetto. L’ultimo passo prima della consacrazione. L’obiettivo, adesso, è uno solo: la Grecia.
Atene 2004
Per la prima volta, i media iniziano a mettere il suo nome accanto a quello di una leggenda dello sport americano: Mark Spitz, l’uomo dei sette ori a Monaco 1972. Un paragone pesante. Spitz è un personaggio indimenticabile con quei baffoni e quell’aria da divo di Hollywood, con il petto sempre in fuori e l’aria di chi la sa molto lunga. Phelps non sembra farci troppo caso. “Quando qualcuno me lo chiese per la prima volta, non avevo nemmeno idea di chi fosse Mark Spitz”, ha raccontato anni dopo. Il suo obiettivo non era riscrivere i record altrui, ma fare qualcosa che non si era mai visto prima. Partecipare a otto gare olimpiche. E vincerle tutte. “Quando ne parlavo, metà del mondo del nuoto pensava che fossi fuori di testa”. In parte lo era davvero. Ma era anche convinto di potercela fare.
L’impatto con Atene è complicato. Arriva in Grecia dopo aver frantumato cinque record del mondo nei due anni precedenti. È il volto dei Trials americani, il simbolo di una generazione che cambia. Ma i primi giorni sono un logorio mentale e fisico. Jet-lag, ritmi spezzati, dorme male. Il corpo è stanco, la testa sempre sotto pressione. “Non era solo una questione di forma”, dirà Bob. “Era stanchezza accumulata, difficoltà di recupero”. Persino per uno speciale come lui.
Debutta nei 400 misti. Vince. Ma soprattutto distrugge il record del mondo: 4’08”26. A fine gara Bob non esulta. Lo guarda e gli dice: “Sei andato troppo forte”. Il giorno dopo ci sono i 200 stile libero, una delle gare più aperte e più massacranti. Davanti a lui ci sono Ian Thorpe, già leggenda, e Pieter van den Hoogenband, oro a Sydney 2000. Due stili opposti: Thorpe ha una nuotata potente e cadenzata, l’olandese è un velocista puro, uno che si mangia l’acqua. Phelps non è il favorito, ma ci prova. Arriva terzo in 1’45”32, dietro a Thorpe (1’44”71) e van den Hoogenband (1’45”23). Bronzo. Il sogno di superare Spitz è svanito lì, alla seconda gara. Ma il programma è appena iniziato.
Nei giorni successivi, Phelps fa quello che Spitz non aveva mai fatto: nuota staffette, si mette a disposizione della squadra, vince in stili diversi. Oro nei 100 e nei 200 farfalla, oro nei 200 e 400 misti, oro nella 4×200 stile libero (con una prestazione dominante), e bronzo nella 4×100 stile libero, dove gli USA cedono il passo al Sudafrica. In totale: sei ori, due bronzi, cinque record olimpici, un record mondiale. Un bilancio storico. Non basta per raggiungere Spitz, ma lo mette definitivamente al centro della storia del nuoto.
“Volevo vedere cosa fossi in grado di fare. Ho capito che non c’era un limite. O che se c’era, era molto più in là di quanto pensassi”
Il primo grosso errore
Dopo Atene, Phelps deve fare i conti con il successo. Va in TV, rilascia interviste, taglia nastri, visita scuole. Viene riconosciuto ovunque. Gli Stati Uniti lo celebrano come un eroe popolare. È giovane, vincente, carismatico. La sua immagine funziona: sulle copertine delle riviste, nelle pubblicità, nei programmi del mattino. Ma dietro i riflettori si nasconde un disagio che fino a quel momento non aveva avuto il tempo, o il coraggio, di guardare in faccia.
Un giorno, la situazione precipita. Un poliziotto lo ferma mentre è alla guida sotto l’effetto dell’alcol. È il più grande errore della sua vita pubblica. Ha 19 anni. La notizia fa il giro dei notiziari. Sui giornali, nelle scuole, nei corridoi delle piscine, si parla di lui in un altro modo. “La cosa che mi ha fatto più male”, dirà, “è stato vedere la reazione nelle facce delle persone a cui volevo bene. Mi dissi che non volevo mai più vedere quell’espressione nel viso di mia madre”. Phelps si scusa. Pubblicamente. Ammette tutto. La sanzione è leggera, 18 mesi di libertà vigilata, ma il colpo emotivo resta. Solo più avanti, riconoscerà in quell’episodio l’emergere dei primi sintomi della depressione. Una voragine silenziosa, che si era aperta anni prima. “Non avere una figura paterna costante ha avuto un peso enorme. Non ne parlavo con nessuno. Mai”.
Torna in acqua. “La mia terapia era sempre la stessa. Bracciata dopo bracciata, vasca dopo vasca.” Una routine quasi ossessiva, che però funziona. Nel mirino ci sono i Mondiali di Montréal, 2005. Lui e Bowman decidono di ampliare il programma per simulare la pressione olimpica. Inseriscono due gare nuove, 100 e 400 stile libero, ed eliminano due specialità pesanti, 200 e 400 farfalla, che padroneggia bene. Il bilancio è altalenante. Nei 400 stile libero, la gara gli sfugge subito di mano: non supera nemmeno le batterie. Chiude 18esimo, fuori da ogni finale. “La mia peggior gara di sempre”. Ma altrove arriva la conferma che il motore c’è ancora: vince quattro ori e un argento, domina nei 200 stile libero, nei 200 misti, e nelle staffette 4×100 e 4×200 stile libero. Nei 100 farfalla, torna faccia a faccia con Ian Crocker, il connazionale che già nel 2003 gli aveva strappato il record del mondo. Anche qui, a Montréal, Crocker lo batte nettamente. “Mi superò di una figura intera. È stata la sconfitta più dura da digerire”, ammetterà Phelps. Crocker chiude in 50”40, nuovo record mondiale. Phelps è secondo, troppo lontano. Il 2005 finisce così: non male in termini di medaglie, ma con più di un campanello d’allarme. In acqua ha ancora margini, ma fuori dalla vasca la tensione resta. Il 2008 è dietro l’angolo, e Phelps sa che non ci sarà spazio per errori. Né in corsia, né fuori.
Melbourne 2007
Il road to Pechino comincia molto prima dell’estate 2008. Gli allenamenti si fanno ancora più duri, più lunghi, più vari. Bowman inserisce sessioni di corsa per aumentare la resistenza, più esercizi in palestra, lavoro mirato sulla schiena, sull’equilibrio, sul coordinamento. Phelps irrobustisce le gambe, i polpacci, le caviglie. Ogni dettaglio conta. L’obiettivo è sempre quello, e resta lo stesso da anni: vincere otto ori olimpici in una sola edizione. Nessuno ci crede. O meglio: quasi nessuno.
Tra gli scettici c’è anche Ian Thorpe. Dall’Australia, in un’intervista, lo dice chiaramente: “È impossibile che ci riesca”. L’australiano dirà che non stava giudicando l’atleta ma tutti i fattori che potevano contribuire al mancato successo. Insomma, in vasca ci sono anche gli avversari e gli imprevisti. Phelps prende quelle parole, le stampa, le attacca nell’armadietto della piscina. Ogni giorno, prima di entrare in acqua, le rilegge.
“Era il primo pensiero del mattino e l’ultimo della sera. Lo guardavo e mi chiedevo: davvero pensano che non posso farcela?”
L’impresa è titanica. Otto gare in pochi giorni, tra batterie, semifinali e finali. Spesso tre sessioni in 24 ore. La minima distrazione può costare una medaglia, un falso passo può rovinare tutto. È una corsa contro il tempo, contro il corpo e contro le aspettative della gente. Vasca, virata, vasca, ancora virata, ancora vasca. Tutto dev’essere calcolato al millimetro, anzi al centesimo di secondo.
Prima di Pechino, però, c’è un altro banco di prova: i Mondiali di Melbourne, 2007. Si tengono in Australia, a casa di Thorpe, che ha già annunciato il ritiro dopo la Cina. Phelps è iscritto a otto gare. Sono le prove generali per l’Olimpiade.
Nei 200 stile libero si presenta come il favorito. Ma non si accontenta di vincere: stabilisce un altro record del mondo, fermando il cronometro a 1’43”86. Un tempo che lascia il pubblico di casa senza parole. È una dichiarazione di potenza. Vince anche i 100 e 200 farfalla, i 200 e 400 misti, e le staffette 4×100 e 4×200 stile libero. Sette ori, cinque record del mondo. Un risultato mostruoso. In un altro sport, sarebbe stato celebrato come un’impresa irripetibile.
Ma manca ancora una gara: la 4×100 misti. È l’ultima, il completamento perfetto. Invece arriva il colpo di scena. Gli Stati Uniti vengono squalificati nelle batterie. Ian Crocker, scelto per nuotare la frazione a farfalla, si muove dai blocchi quattro centesimi prima del via. È partenza anticipata. Squalifica inevitabile. Un imprevisto, uno dei possibili scenari immaginati da Thorpe. Phelps non gareggia. Niente finale, niente medaglia, niente otto su otto. Ma la delusione dura poco. In quella settimana ha dimostrato che l’obiettivo non è più un’ossessione privata, né una follia da spogliatoio. È un traguardo reale. Concreto. Possibile.
Pechino, l’impresa
Phelps arriva a Pechino con i paraocchi. Lo dice lui stesso, senza giri di parole. “Ero totalmente concentrato solo su quello che dovevo fare”. Sono pochissimi gli scambi con la stampa. L’unica cosa che vuole vedere è l’acqua, la corsia, sempre una di quelle centrali, le linee nere sul fondo della vasca, la grande T vicino all’arrivo. Gli serve solo quello. Per essere lì ci sono voluti quattro anni di lavoro maniacale, oltre diecimila ore di allenamento, una vita scandita da sveglie all’alba, diete metodiche, ore in palestra, esercizi per il fiato, la schiena. Nessuna distrazione ammessa. Ogni scelta, ogni allenamento, ogni dettaglio era stato pensato con un solo obiettivo: vincere otto ori olimpici. Fare quello che nessuno aveva mai fatto. Tutto con l’aiuto di Bob, ovviamente, che calcola in numeri quello sforzo: tra Atene e Pechino, Phelps ha nuotato 15mila chilometri, più o meno.
Il primo test arriva con i 400 misti. Una delle gare più faticose dell’intero programma. È la combinazione definitiva: farfalla, dorso, rana, stile libero. Uno sforzo completo. A sfidarlo ci sono due avversari veri: l’ungherese László Cseh, esperto, continuo, letale nei finali; l’americano Ryan Lochte, suo compagno di squadra ed eterno amico-rivale. In vasca non c’è partita. Phelps nuota come se provenisse da un altro pianeta. Vince con margine e firma l’ennesimo record del mondo. In tribuna, ad applaudire, c’è anche il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush.
La seconda gara è la staffetta 4×100 stile libero, una delle più spettacolari. Phelps apre, come sempre. A seguire ci sono Garrett Weber-Gale, Cullen Jones e Jason Lezak, il veterano. I favoriti sono i francesi, con Alain Bernard in ultima frazione. Alla fine del terzo cambio, la Francia è avanti. Bernard ha mezzo corpo di vantaggio su Lezak. Ma Lezak non si arrende. Rientra metro dopo metro, e sull’ultima bracciata tocca il muro per primo. Otto centesimi. Una rimonta pazzesca. Record del mondo, oro numero due. A bordo vasca Phelps impazzisce. Urla, batte i pugni, salta. È la prima volta che si lascia davvero andare. Sa che tutto poteva finire quel giorno, di nuovo, nelle fasi iniziali di quell’avventura.
I 200 stile libero scorrono lisci. È una delle sue distanze preferite. Quella che gli permette di combinare resistenza e potenza. Ancora oro, ancora record del mondo. A questo punto, sono tre ori in tre gare. Il piano sta prendendo forma. Ma le Olimpiadi, si sa, non perdonano nulla. E il colpo basso arriva nella forma più imprevedibile: occhialini rotti. Succede nei 200 farfalla, la sua specialità. All’inizio della seconda vasca, gli occhialini si riempiono d’acqua. “Non vedevo più niente. Non la linea nera, non la T. Niente.” In quella condizione, nuota a memoria, contando le bracciate. E lo fa senza mai perdere il ritmo. Vince anche questa. Oro numero quattro. E, incredibilmente, altro record del mondo. Dopo la gara però è esausto. Bob lo guarda, preoccupato. Lo vede piegarsi sul bordo, senza fiato. E mancano solo 54 minuti alla prossima finale. È un’altra staffetta: la 4×200 stile libero. È lunga, impegnativa. Ma Phelps parte forte, ancora una volta. Si prende il vantaggio, lo passa ai compagni. Nessun errore, nessuna esitazione. Gli americani vincono comodi. Cinque ori. Cinque su cinque. Il giorno dopo, i 200 misti non presentano grandi minacce. Li domina in modo chirurgico. Vince con margine, senza rischiare nulla. Sei ori. Sei su sei.
Poi arriva la gara più pericolosa: i 100 farfalla. Una distanza breve, esplosiva. Non è il suo terreno naturale. Ma è migliorato negli anni, diventando anche un velocista. L’avversario è duro: si chiama Milorad Cavic. Serbo ma cresciuto negli Stati Uniti, tecnico, rapidissimo, ossessionato da Phelps. Nei giorni prima della finale, lo dice chiaramente ai giornalisti: “Spero che non vinca otto ori. Sarebbe meglio per il nuoto. E io sono quello che può fermarlo”. Non lo dice con cattiveria, tra i due c’è molta stima, è un modo per caricarsi, per superarsi. La gara è tiratissima. Cavic parte meglio. Tiene. Ultime bracciate, i due arrivano appaiati. In tribuna mamma Debby e le sue due sorelle trattengono il fiato. Bob guarda la televisione, in area allenatori. Sul tocco non si capisce niente. Gli atleti si girano, rapidi, guardando il tabellone. Phelps ha vinto. Di un centesimo. 50”58 contro 50”59. Incredibile. Cavic rimane sul podio con lo sguardo perso. I serbi protestano, ma non c’è nulla da fare. Il regolamento è chiaro: Phelps ha toccato più forte la piastra, ha spinto di più, ha messo maggior peso nel tocco. Sette ori. Come Spitz.
“Bob ha insistito molto sui finali per tutta la mia carriera, sulla pressione da dare alla piastra, sul chiudere forte”
All’ultima gara, la 4×100 misti, c’è l’atmosfera delle grandi occasioni. La piscina è piena, 17mila persone sugli spalti. Tutti vogliono esserci. Gli Stati Uniti affrontano l’Australia. Phelps si prende la frazione a farfalla, come sempre. Lezak chiude. E stavolta non c’è bisogno di miracoli: è una vittoria netta. Gli americani volano. Oro numero otto.
Otto gare, otto ori, sette record del mondo. Michael Phelps ha riscritto la storia. Anni dopo, Ian Thorpe, l’uomo che aveva detto che non sarebbe stato possibile, lo ammetterà: “Sono felice di essere stato smentito. Non pensavo che potesse succedere. Non per mancanza di talento, ma per la concorrenza. E invece lo ha fatto”. Ma Phelps non cercava la vendetta. Né Spitz, né Thorpe. “Non volevo essere il secondo Mark Spitz. Volevo diventare solo il primo Michael Phelps”. In un’intervista di qualche anno fa dirà che quelle 8 medaglie preziosissime non si trovano in casa sua e, nonostante le domande e le battute, Phelps non si lascerà sfuggire neanche un dettaglio sul luogo in cui sono conservate. “Lo sanno solo 3 persone oltre a me dove si trovano quegli 8 ori”. Il mistero di dove si trovino resta ancora insoluto.
Roma, The Bong Thing e Londra 2012
Dopo Pechino, in realtà, cambia tutto. Il suo nome è sinonimo di leggenda: giornali, spot pubblicitari, talk show. Va alla Casa Bianca, ospite d’onore, e diventa il simbolo perfetto dell’America che vince. Il nuotatore da 8 ori è dappertutto. Ma dietro quell’immagine costruita alla perfezione, qualcosa si incrina. Perché quando centri l’obiettivo che ti sei dato per tutta la vita, la domanda che arriva subito dopo è semplice e difficile allo stesso tempo: e ora?
Phelps, 23 anni, non ha una risposta articolata. Solo una reazione: non vuole più saperne. Dice chiaramente che non ha intenzione di continuare con gli stessi ritmi. Che non vuole nuotare, non vuole allenarsi, non vuole nemmeno tornare in piscina come ha fatto negli ultimi 12 anni. “Avevo bisogno di spazio”, spiegherà. Dopo una vita fatta di sveglie all’alba e allenamenti doppi, si prende una pausa. Inizia a viaggiare, frequentare amici, vivere situazioni che per anni aveva evitato o ignorato. Tutto quello che fino ad allora era rimasto fuori dal programma. Continua ad allenarsi, a gareggiare, ma senza il fuoco che lo ha contraddistinto per anni. Ai Mondiali in Italia, nel 2009, conquista cinque ori e un argento, nonostante arrivasse da mesi turbolenti e pieni di dubbi sul futuro. Vince nei 100 e 200 farfalla, entrambi con record del mondo, e guida le staffette USA all’oro nella 4×100 stile, 4×200 stile e 4×100 misti. L’unico passo falso arriva nei 200 stile libero, dove chiude secondo dietro il tedesco Paul Biedermann. È la sua prima sconfitta internazionale nella distanza. Il viso è tirato, lo sguardo più offuscato del solito. Nonostante a Roma il pubblico lo acclami in ogni gara. “Amo questa città, l’atmosfera è pazzesca”. Ma l’amore dei tifosi non basta. Qualcosa si è rotto.
Ed è in quel contesto che nasce “The Bong Thing”, come lo chiameranno poi i media. Uno scatto che lo ritrae mentre fuma marijuana con un bong, durante una festa universitaria. L’immagine finisce ovunque. Tabloid, siti sportivi, notiziari. Diventa (di nuovo) un caso. La federazione americana lo sospende per tre mesi. Phelps si scusa pubblicamente, ma riconosce che è stato uno degli episodi più difficili della sua carriera. “Probabilmente il punto più basso”. Tutto ciò non ha mai inficiato sulle sue prestazioni. Phelps non è mai stato neanche sfiorato dal doping, anzi, si è sempre offerto volontario per i progetti della Wada e della comunità internazionale: “Ci tenevo a dimostrare di essere sempre pulito”, dirà nella sua biografia.
Ora, però, non c’è più l’urgenza di vincere, e questo cambia tutto. Londra 2012 è ancora lontana, ma il desiderio di esserci non è più lo stesso. Alla fine decide di gareggiare, più per obbligo che per convinzione. Si allena, sì, ma molto meno. Lontano dai volumi di Pechino, lontano anche da se stesso. “Sembrava quasi che stessi nuotando per dovere”, dirà più avanti. A Londra i segnali sono evidenti fin da subito. Nei 400 misti arriva quarto. È la prima volta che manca una medaglia in una finale olimpica. Nei 200 farfalla, la sua gara, perde l’oro sul tocco contro il sudafricano Chad Le Clos, 20 anni, cresciuto ammirandolo. Phelps sbaglia l’arrivo, Le Clos lo anticipa di cinque centesimi. Un dettaglio, come già ricordato, può valere una medaglia d’oro e stavolta Michael si trova dall’altra parte della barricata. “Mi ha fatto male per due anni interi”, dirà. Una sconfitta secca, non prevista. Ma resta competitivo. Recupera concentrazione e chiude con un bilancio comunque eccezionale: quattro ori e due argenti. Vincendo la staffetta 4×200 stile libero, Phelps diventa l’atleta più medagliato nella storia delle Olimpiadi superando le 18 medaglie della ginnasta sovietica Larisa Latynina. Con il trionfo nei 200 misti e nei 200 farfalla diventa il primo nuotatore (tra gli uomini) a vincere la stessa gara individuale in tre Olimpiadi di fila. “Andando verso il 2012, Micheal si allenava solo per il 50% del tempo. Eppure, anche con carichi dimezzati, in gara è stato sorprendente”, confesserà Bowman.
Il ritiro, l’arresto, il centro di recupero
L’annuncio del primo ritiro arriva a Giochi di Londra conclusi. Phelps lo comunica con calma, senza grandi cerimonie, durante un evento a Riad. Nessun colpo di scena, nessun discorso epico. Solo la decisione di smettere. A 27 anni. Non per limiti fisici o tecnici: è ancora il nuotatore più vincente del pianeta. Ma dentro non c’è più niente che lo tenga in movimento. Nessuna motivazione reale. “Non avevo più voglia di tornare a farlo”. All’inizio sembra una pausa meritata. Un atleta che ha vinto tutto, che ha cambiato la storia del proprio sport, che si prende un po’ di tempo per sé. Si dedica al poker e al golf. Come un altro Michael, Jordan, che da sempre è uno dei suoi punti di riferimento. Nel 2014 compare anche nella serie televisiva Suits interpretando sé stesso. Ma quella pausa si trasforma lentamente in qualcosa di più complicato. I giorni si allungano, le notti diventano più pesanti. Il ritmo della piscina è sparito. Non ci sono orari, non ci sono obiettivi. Solo una strana routine fatta di silenzi, sonno irregolare e poca voglia di parlare con qualcuno. In pubblico mantiene la sua faccia sorridente, positiva. È ancora invitato a eventi, ospitate, campagne pubblicitarie. Il volto è quello di sempre, ma il resto comincia a cedere. Si accorge che qualcosa non va. Così fa un passo indietro e torna a gareggiare il 24 aprile 2014, dopo un anno e otto mesi dal suo ritiro, in cui era ingrassato ben 15 chili. Cerca ancora nel nuoto, nella piscina, una cura ai suoi malesseri.
Poi, nel 2014, succede di nuovo. Viene fermato per guida in stato di ebbrezza a Baltimora. È la seconda volta in dieci anni. E stavolta l’effetto è diverso. Il suo nome non è più inattaccabile. I titolisti parlano di crisi, di problemi, di caduta. La notizia gira, e questa volta non ci sono medaglie fresche per controbilanciarla. Phelps sparisce per settimane. Nessun commento. Nessun post. Nessuna dichiarazione. Si chiude in casa, rifiuta le chiamate. Sta giorni interi sul divano, senza muoversi. “Non volevo più alzarmi. Non volevo vedere nessuno. Pensavo che il mondo sarebbe stato un posto migliore senza di me”. Lo dirà solo più avanti, spiegando che non ha mai veramente pensato al suicidio nonostante la pesantezza di quei pensieri, quando comincerà a raccontare la depressione che lo ha accompagnato, silenziosa, per anni. Una cosa che c’era anche prima, ma che aveva sempre ignorato.
Solo in quel momento, con tutto fermo e nessuna scusa per tirarsi fuori, decide di chiedere aiuto. Entra in un centro specializzato, comincia un percorso terapeutico, parla con altri atleti che hanno vissuto la stessa cosa. Per curarsi ascia la sua casa nel Maryland e vola in Arizona fino a The Meadows, un istituto residenziale fuori Phoenix. Si tratta di un percorso intensivo: 45 giorni lontano dal mondo, programmati tra sessioni individuali e di gruppo. Lì non ci sono smartphone, internet o distrazioni. La giornata è scandita da sveglia alle 6, colazione, terapia e, sì, anche una piccola piscina per qualche bracciata leggera. Il primo impatto è duro. Phelps racconta: “Ero completamente chiuso, non volevo parlare con nessuno”. La federazione americana, proprio in quel frangente, lo sospende e lo esclude dai Mondiali di Kazan, in Russia, nell’agosto 2015. Lui accetta. Non protesta. Dice che tiferà i suoi compagni.
E poco dopo inizia ad aprirsi. Il confronto con altri pazienti, spesso persone lontane anni luce dal suo mondo, inizia a far emergere cose nascoste. La terapia diventa una sfida personale. Phelps la racconta così: “Ho deciso che avrei cercato di capire chi sono. Sono sempre stato Michael il nuotatore, mai Michael l’uomo”. Nelle sessioni familiari sono presenti anche il padre Fred e la madre Debbie. Riesce ad affrontare vecchie paure, come quella di crescere senza una figura paterna stabilmente presente. Il centro è un luogo strutturato per smontare schemi consolidati e ricostruire nuovi equilibri. Si passa dalla piscina al cerchio terapeutico, dai pesi alle conversazioni sulle paure più intime. Poi, dopo 45 giorni, torna a casa. Ma la terapia non finisce lì. Continua con sedute regolari, gruppi, sistemi di supporto. Phelps stesso dice di essere uscito “mentalmente più leggero” e meno vulnerabile.
Ultimo capitolo, Rio.
Quando torna davvero a nuotare, Michael Phelps non lo fa per le medaglie. O almeno, non solo. Lo fa per sé. Dopo il ritiro, la caduta e il percorso terapeutico, torna in vasca per ricostruire una relazione più sana con se stesso e con il nuoto. Non c’è più la pressione di dover dimostrare qualcosa, non ci sono paragoni con Spitz da inseguire, nessun obiettivo da scrivere in un pezzo di carta. Bob c’è ancora. È sempre stato con lui, anche nei momenti più difficili. Anche fuori dal nuoto. “Si riprende? Ok, ma a modo mio”, gli dice. “C’è un altro modo possibile?”, gli risponde Michael, ridendo.
A 31 anni, è ancora veloce. Ma è anche un atleta diverso. Più attento al recupero, più equilibrato. E più centrato. Ha imparato a dosarsi, a dire di no, a non lasciarsi travolgere. Inizia un percorso regolare di terapia psicologica, apre un confronto serio sul tema della salute mentale negli sportivi e diventa, anche involontariamente, un punto di riferimento per altri atleti. Nel frattempo, cambia tutto anche fuori dall’acqua. Conosce Nicole Johnson, ex Miss California, che diventerà sua moglie. Nasce Boomer, il primo figlio, e per la prima volta diventa padre prima di salire sul blocco di partenza. È in questo stato che si presenta a Rio 2016. Ha i capelli corti, lo sguardo concentrato, il corpo ancora tonico ma meno tirato. Non solo, è il portabandiera americano durante la cerimonia d’apertura: l’onore più grande.
Nel medagliere olimpico, Rio è l’ultimo tassello. E quando entra in acqua, si capisce subito che è ancora lui. Vince cinque ori e un argento. Trascina ancora le staffette, domina nei 200 farfalla, si prende la rivincita contro Chad Le Clos, che stavolta finisce giù dal podio. Vince anche nei 200 misti, per la quarta Olimpiade consecutiva. Nessuno ci era mai riuscito. L’unico argento arriva nei 100 farfalla, in una tripla parità al secondo posto: Phelps, Le Clos e Cseh. Tutti a 51”14. La medaglia d’oro va a Joseph Schooling, 21 anni, cresciuto anche lui con il poster di Phelps in camera. Rio è davvero l’ultimo capitolo, e per la prima volta lo decide lui. Senza pressioni esterne. Si ritira subito dopo la staffetta mista, ultima gara della sua carriera. Non c’è nostalgia, solo consapevolezza. “Adesso posso chiudere bene. Posso andare avanti.”
Finita la carriera, stavolta Phelps non sparisce. Si prende uno spazio tutto suo. Diventa testimonial per la prevenzione della depressione, investe in progetti sulla salute mentale e sulla sostenibilità ambientale, si dedica alla Michael Phelps Foundation, con programmi di educazione al nuoto e benessere per i giovani. E lo fa anche durante la pandemia, un altro periodo difficile per chi ha dovuto sempre monitorare la propria salute mentale e i sintomi della depressione: “Il fatto è, e chi convive con problemi di salute mentale lo sa bene, che non se ne va mai. Ci sono giorni buoni e giorni cattivi. Ma non c’è mai un traguardo. Ho fatto tante interviste dopo Rio in cui la storia era sempre la stessa: Michael Phelps ha parlato apertamente della depressione, ha iniziato un programma di trattamento, ha vinto l’oro alle sue ultime Olimpiadi e ora sta tutto meglio. Vorrei che fosse la verità. Vorrei che fosse così facile. Ma onestamente, e lo dico nel modo più gentile possibile, questa è pura ignoranza. Chi non capisce cosa affrontano le persone con ansia, depressione o disturbo post-traumatico da stress non ne ha la minima idea”.
Oggi, per combattere tutto ciò, serve un altro tipo di routine e una grande forza di volontà: “Io so solo che devo andare in palestra ogni giorno per almeno 90 minuti. È la prima cosa che faccio. Mi sveglio tra le 5:15 e le 7:00, senza usare nessuna sveglia. Se sono già le 7 do da mangiare ai ragazzi (ora ha 3 figli, ndr) e li aiuto a prepararsi. Ma se mi sveglio prima, mi rifugio in palestra”, ha raccontato a Espn un paio d’anni fa. “Ci sono giorni in cui non vorrei andarci. Ma mi impongo di farlo. So che è un bene per la mia salute mentale tanto quanto per quella fisica”. Il tutto insieme alla scrittura, al dare forma ai pensieri: “Cerco sempre di scrivere appunti sullo specchio con un pennarello cancellabile. E ci sono tante citazioni motivazionali sparse per il mio ufficio, frasi che uso per aiutarmi. Tengo anche un diario. Ho dai 20 ai 30 fogli di carta sparsi ovunque, fogli in cui annoto le cose che mi vengono in mente o che voglio ricordare”.
In vasca, Phelps, ci è stato per più di metà della sua vita. Gli ha dato tutto ma gli ha anche tolto tanto. E dopo essere diventato l’atleta più forte della storia delle Olimpiadi, oggi parla spesso nelle scuole, partecipa a conferenze, si espone sul tema degli abusi emotivi nello sport, e racconta la sua storia senza filtri. “Ho imparato che il successo non ti protegge dal crollo. Ma parlarne può aiutarti a non caderci di nuovo”.