sabato, Luglio 26, 2025
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Sotto la croce da vescovo la svastica da ufficiale nazista

AGI – Con l’abito talare aveva rimesso ai fedeli i loro peccati, ma non era mai riuscito a chiedere perdono per i suoi, commessi con l’uniforme della Wehrmacht. Il vescovo Matthias Defregger si spense a Monaco di Baviera il 23 luglio 1995, a ottanta anni; a ventinove era capitano dell’esercito tedesco e il 7 giugno 1944 aveva legato il suo nome alla strage di Filetto di Camarda, un villaggio montano vicino all’Aquila.

Qui era scattata una rappresaglia per un attacco partigiano, in spietata applicazione del bando del 7 aprile del Feldmaresciallo Albert Kesselring: “Responsabile per le immediate contromisure è il comandante con più anni di servizio, L’ordine principale è la reazione energica, risoluta e veloce. Ai capi irresoluti chiederò conto (…). Una reazione energica e tempestiva non darà luogo a nessuna punizione. Dopo un attacco di sorpresa si devono bloccare subito i dintorni della località. Tutti i civili che si trovano nelle vicinanze devono essere presi senza distinzioni di condizione o di persone”. L’ufficiale responsabile di zona era Matthias Defregger. Filetto è un paesino di neanche 300 abitanti, già piagato dall’emigrazione, metà delle case sono vuote e non c’è neppure l’acqua corrente. Non c’è niente.

Il tedesco buono e quello cattivo

La banda partigiana dell’ufficiale degli alpini Aldo Rasero aveva attaccato a Filetto una pattuglia tedesca del CXIV reparto tramissioni della 114ª Jäger-Division che stava smantellando un impianto radio, provocando, secondo il rapporto ufficiale, due morti e tre feriti, uno dei quali spirerà l’indomani.  

Al comando della 114ª Jäger-Division, da neanche una settimana, c’è il generalleutnant Hans Boelsen, un pluridecorato, laureato in scienze politiche e in giurisprudenza. La divisione alpina si è specializzata sui monti della Jugoslavia nella repressione dell’attività partigiana, con eccessi di crudeltà. La notizia dello scontro a fuoco viene portata al comando di Paganica dal maresciallo Hermann Schäfer, responsabile del centro radio: a detta di tutti, era stato sempre corretto e amichevole con la popolazione civile. E lo sarà fino all’ultimo, perché cercherà di opporsi all’assassinio del sessantacinquenne Antonio Palumbo, protesterà con veemenza e verrà freddato da un commilitone.

Il sedicenne Mario Marcocci sarà obbligato a caricare il suo corpo su un camion e verrà a sua volta ucciso. Un sopravvissuto all’eccidio testimonierà che il maresciallo Schäfer era una “brava persona”, non aveva “mai fatto del male a nessuno”, e che era stato ucciso perché sosteneva che a Filetto c’era solo “gente buona”. E dirà invece del comandante che era “una belva. Portava gli occhiali. Era grasso. Si riconosce dalle fotografie”.

  Nessuno vuole assumersi la responsabilità dell’eccidio

I maschi dai 16 ai 60 anni del paese di Filetto sono subito catturati e radunati. Al comandante del CXIV reparto trasmissioni, il capitano Defregger, giunge l’ordine di passarli per le armi. Lui rifiuta, ma poi arriva una conferma formale da parte del generale Boelsen il quale insiste affinché l’ordine venga eseguito e arriva a minacciarlo di punizione. All’Aquila il telefonista Richard Kotlarski ascolta il contenuto di quella drammatica comunicazione e la riferirà sotto giuramento ai giudici del Tribunale nel 1970.

Defregger chiede di evitare la fucilazione e di poter utilizzare invece i civili per i lavori forzati. Niente da fare. Boelsen pretende la rappresaglia, e allora dal comando invia a Filetto i tenenti Werner Birkenbach e Albrecht-Axel von Heyden affinché il capitano proceda. Messo alle strette, Defregger ne dà incarico al sottotenente Paul Erich Elhert, il quale a sua volta si rifiuta e lo affida a un anonimo caporale. Le mitragliatrici abbattono quindici civili, altri riescono nella confusione a darsi alla fuga, in due simulano di essere morti. Il paese di Filetto viene saccheggiato e dato alle fiamme. La strage fa diciassette vittime, quasi tutti contadini.

 La giustizia degli uomini e quella divina

 Il 7 luglio 1969 un’inchiesta del settimanale “Der Spiegel” rivela che il vescovo ausiliario di Monaco di Baviera e Frisinga, Matthias Defregger, è il capitano di Filetto. Prima della guerra aveva studiato in un collegio di gesuiti, e alla fine del conflitto aveva ripreso gli studi di filosofia e teologia all’università. Nel 1949 era stato consacrato prete e nel 1968 papa Paolo VI lo aveva nominato vescovo ausiliare. L’articolo, uscito quando Defregger era nominalmente vescovo titolare di Vico di Aterio in Tunisia, provoca un pandemonio. Il caso viene riaperto e dalla storia riemerge una pagina sanguinosa.

L’inchiesta della Procura di Francoforte si chiude nel 1970 col verdetto di assoluzione: secondo il procuratore Rahn la strage di Filetto era configurabile come omicidio colposo e quindi il reato è estinto per prescrizione. Quella parallela aperta dalla Procura della Repubblica dell’Aquila finisce per competenza alla Procura militare di Roma che nel 1972 dichiara di non doversi procedere perché i reati sono estinti per prescrizione. Nel 1990 Defregger rassegnerà le dimissioni nelle mani di Giovani Paolo II per sopraggiunti limiti di età. Morirà cinque anni dopo, senza mai ricevere una delegazione del paese di Filetto, che non cercava vendetta ma giustizia, e che da un vescovo cattolico voleva ascoltare almeno una richiesta di perdono.

La memoria controversa

Dal 1969 Defregger risiedeva a Pöcking in una villa ereditata da una zia, ed era molto apprezzato dalla comunità, tanto che nel 1996 gli avevano intitolato un sentiero e dedicato una targa, poi rimossi e sostituiti da un testo commemorativo redatto da Marita Krauss, docente di storia di Augusta, che per conto dell’amministrazione comunale aveva condotto studi approfonditi su quella pagina di storia scritta col sangue il 7 giugno 1944. Nella comunità di Filetto è continuata a persistere un’opinione negativa sull’attacco partigiano e sulle sue motivazioni, poiché provocò la rappresaglia nazista sulla popolazione civile innocente.

 

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