martedì, Luglio 8, 2025
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Srebrenica: il peso della memoria e delle responsabilità olandesi

AGI – Il 2022 fu l’anno delle scuse. Il 19 giugno l’allora primo ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte, chiese scusa, a nome del governo, agli 850 veterani del contingente di pace Dutchbat III, che nel luglio 1995 non riuscì a impedire la strage di Srebrenica, la pagina più nera della sanguinosa storia della dissoluzione della Jugoslavia. I militari furono insigniti della medaglia di bronzo al valore e Rutte fece ammenda di fronte a truppe chiamate a eseguire un “compito impossibile” senza mezzi e formazione adeguati.

Alle famiglie delle vittime sembrò un’iniziativa pilatesca che quasi contraddiceva quanto stabilito nel 2019 dalla stessa Corte Suprema dei Paesi Bassi. Ovvero, che i caschi blu dell’Onu olandesi non solo non riuscirono a fermare il massacro di 8 mila bosgnacchi, ovvero musulmani di Bosnia, compiuto dalle milizie serbo-bosniache di Ratko Mladic, ma addirittura ebbero una parte di responsabilità, “il 10%”, con l’espulsione dalla loro base di 350 uomini che vi si erano nascosti e furono invece consegnati a morte certa.

Poco meno di un mese dopo, l’11 luglio, nell’anniversario della carneficina, il ministro della Difesa olandese, Kajsa Ollongren, si vide costretta a recarsi in Bosnia Erzegovina per domandare, per la prima volta, scusa a nome della sua nazione. Con la premessa, però, che “i soli responsabili sono le truppe serbo-bosniache” e che “il governo olandese condivide la responsabilità” del “fallimento della comunità internazionale nel fornire adeguata produzione alla popolazione di Srebrenica”.

Dopo un’offensiva serba, nella primavera del 1993 le Nazioni Unite designarono la città come parte di una “zona sicura” protetta dai loro caschi blu, che avrebbero dovuto tutelare le migliaia di bosgnacchi scappati dalle aree controllate dagli uomini di Belgrado. Nel frattempo le milizie bosniache erano state costrette a una demilitarizzazione nel quadro dell’accordo per stabilizzare l’area. Fu una decisione fatale. Quando il 9 luglio Srebrenica fu attaccata dall’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina non c’era nessuno che potesse fermarli. 

La “zona protetta” si riempì di profughi in fuga, incalzati dalle forze di Mladic. Armati alla leggera e sprovvisti di copertura aerea (su questo punto, il balletto delle responsabilità dura ancora oggi), gli olandesi non riuscirono a opporre resistenza e si asserragliarono nel loro compound di Potocari, anch’esso zeppo di rifugiati, la maggior parte dei quali furono espulsi dalla base.

I militari olandesi contribuirono a separare le donne dagli uomini, come chiesto da Mladic, e 350 bosniaci furono lasciati alla sua merce’. Finirono tutti tra le 8 mila vittime di una settimana di sangue nella quale i serbo-bosniaci presero da parte per presunti “interrogatori” tutti i bosgnacchi maschi dai 12 ai 77 anni sui quali riuscirono a mettere le mani. Nei cinque giorni successivi quegli uomini sarebbero stati uccisi, sovente dopo essere stati torturati, e i loro corpi sarebbero stati gettati nelle fosse comuni.

Il comandante della Dutchbat III, Thom Karremans, nel libro scritto tre anni dopo la strage, spiegò di aver invocato copertura aerea per ben quattro volte, essendo privo dei mezzi per fermare Mladic da solo. La ricca memorialistica disponibile conferma per lo più questa versione dei fatti e dai ricordi dei veterani emergono una confusione e un senso d’impotenza raggelanti. I rimpalli nella catena di comando e regole di ingaggio inadeguate fecero sì che la richiesta fosse accolta solo quel fatale 11 luglio, quando per Srebrenica non c’era già più alcuna speranza. Superati i problemi logistici legati alle difficoltà di comunicazione, alcuni F-16 furono incaricati di portare soccorso alla base. A fermarli fu un ordine diretto dell’allora ex ministro della Difesa olandese, Joris Voorhoeve. 

L’ex ministro fu tirato in ballo dall’ex ufficiale dell’aeronautica Bart Wagenaar, che nel 2015, a vent’anni dai fatti, raccontò al quotidiano De Telegraaf la sua verità. “Martedì pomeriggio, 11 luglio 1995, il ministro Voorhoeve fermò personalmente i bombardamenti degli F-16”, ricostruì Wagenaar, che fece parte dell’unità di crisi convocata a L’Aia, “poco dopo le cinque dovetti chiamare l’inviato delle Nazioni Unite, Yashushi Akashi, e lo misi in contatto con il ministro. ‘Annullate tutti gli attacchi aerei, mi sembra ancora di sentire Voorhoeve dirlo”.
L’ex ministro confermò di aver bloccato quell’operazione aerea che, forse, avrebbe potuto cambiare la storia ma sostenne che l’Onu aveva già preso una decisione in questo senso.

“La bandiera serbo-bosniaca sventolava già sul complesso. Mladic aveva minacciato di uccidere i caschi blu olandesi e i rifugiati”, spiegò Voorhoeve. Fu invece uccisa qualsiasi illusione ancora superstite, dopo il genocidio in Ruanda, della possibilità che le forze di pace delle Nazioni Unite potessero offrire una qualsiasi forma di deterrenza efficace. Perché è anche a causa del massacro di Srebrenica se oggi l’Onu viene considerata da molti un organismo consultivo dalla dubbia utilità e non ha più un briciolo del prestigio e della credibilità di cui aveva goduto durante la Guerra Fredda

 

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